Ho letto recentemente un’offerta di lavoro rivolta ai graphic designer in cui si invitava ad inviare qualche esempio del proprio lavoro. Nulla di sorprendente, no. Quel che mi ha fatto riflettere è la precisazione di chi aveva pubblicato l’offerta, la quale suonava più o meno come un “vorrei capire qual è il designer il cui stile si adatta meglio al mio progetto”. Data per scontata la legittimità di questo tipo di domanda (soprattutto se a porla è un profano), ho iniziato a pensare (mi capita, a volte) a questo termine. Stile. Termine ambiguo, se vogliamo. Fra i più usati, in ambito creativo. Fra i più abusati, forse. .

Di cosa parliamo, quando parliamo di stile?

La parola stile, nella maniera in cui ci interessa parlarne qui, possiede due accezioni. La prima è neutra e indica “l’insieme di il modo abituale di essere, di comportarsi, di esprimersi tipico di una persona”. La seconda esprime un’accezione positiva e in particolare indica “eleganza, distinzione, signorilità di modi” (i virgolettati sono presi dalla definizione che trovate qui).

Stile e lavoro su commissione nell’ambito dei lavori creativi: qual è il problema

Non è detto che sia la norma, però è un problema che ho riscontrato spessissimo. Il cliente, o potenziale cliente, desidera servizi di professionisti di cui sia riconoscibile “la mano”, ma tralascia il fatto che di fronte ad un lavoro su commissione un creativo ha quasi sempre l’esigenza di scomparire e assumere le sembianze del committente. Dal che consegue il fatto che non di rado un buon portfolio sia composto da lavori nei quali il riconoscimento di caratteristiche e modi di lavoro ricorrenti sia tutt’altro che scontato.

Vero è che ognuno di noi ha uno stile. Sempre. Nel suo lavoro, nel suo approccio ai problemi quotidiani, nelle relazioni sentimentali. In tutto; e ci mancherebbe che non fosse così.

Ed è anche vero che non mancano i casi di persone che lavorino proprio in virtù di alcune caratteristiche precise che i clienti richiedono espressamente: non pochi si possono permettere di ragionare come gli illustratori e le illustratrici delle copertine del New Yorker, ai quali e alle quali viene espressamente richiesto di far trasparire il loro segno.

Però: fatti i dovuti distinguo, dicevamo che frequentemente un buon portfolio è una raccolta in cui il segno dell’autore scompare in modo da rendere visibile il segno, l’impronta della committenza. Siamo, chi più chi meno, dei ghost writer a cui viene concesso di dire (non sempre): “Ehi, guarda che figata il logo della tale azienda. L’ho fatto io, sai?”

Conclusione: il cliente cerca uno stile unitario e si trova spiazzato dal non riconoscerlo nel lavoro del professionista, non avendo chiaro il fatto che è più che normale che le cose stiano così. Più che normale: positivo, molto spesso.

C’è poi l’altra questione, quella più fastidiosa. La committenza desidera lavorare con persone che abbiano uno stile, abbiamo detto. O almeno, crede di desiderarlo e dimentica che assoldare un professionista in funzione delle sue caratteristiche di stile significherebbe a rigor di logica lasciargli, lasciarle campo libero sui modi di realizzazione del lavoro.

Quel che invece accade spesso è che comunque l’azienda desideri intervenire su tutti quegli aspetti identitari del professionista dai quali in prima battuta era rimasta colpita ma dai quali in sede di lavorazione inizia a sentirsi soffocata. È ovviamente una sensazione che è legittimo provare, esattamente come legittimo è insistere sul fatto che un graphic designer, un copywriter, un qualsiasi creatore di contenuti privilegi l’identità aziendale piuttosto che la propria.

Il problema è che dobbiamo capirci: frasi del tipo “abbiamo visto le tue illustrazioni e vorremmo che tu facessi un lavoro del genere anche per noi” vanno in genere poco d’accordo con chiose come “sì, ma quel tipo di disegno non va bene”, “dovresti cambiare il soggetto perché al titolare non comunica nulla”, “usa degli altri colori perché non mi piacciono l’arancione e il viola messi insieme” e avanti così.

Conclusione

Che poi non è una conclusione, ma solo una notazione abbastanza prevedibile. Un reminder per invitare me stesso prima che altri a ribadire che il lavoro creativo è sempre e invariabilmente un compromesso fra le identità e le sensibilità. È un discorso di coerenza fra quel che chiediamo in prima battuta e quel che finiamo per volere in corso d’opera. Un invito al dialogo fra domanda e offerta che eviti spiacevoli fraintendimenti.

Un dialogo che, forse ma forse, è quel che ancora non possiamo domandare alle intelligenze artificiali e che può, almeno per adesso, spingere qualcuno a chiedere un’illustrazione pubblicitaria a me invece di generarla dando le istruzioni a Mid Journey, che magari fa dei disegni più fighi dei miei ma se ne fotte dell’identità e dei propositi del cliente più di quanto crediamo.

Poi sì, anche quest’ultima affermazione è un po’ tagliata con l’accetta. Ma, al netto di tutte le argomentazioni e di tutte le dissertazioni che sarà doveroso fare, ci siamo capiti.

Ne riparliamo.

Bonus track n.1

Parlando di illustratori e illustratrici e rimanendo sull’accezione positiva del sostantivo, giusto due nomi di gente che ha stile e il cui lavoro fa bene osservare per imparare qualcosa: Christoph Niemann e Jenny Kroik: se seguite le pagine del New Yorker li conoscete già.

Bonus track n.2

Posso mai astenermi dal condividere musica? No, che non posso. E quindi, ecco un esempio di cosa significa mediare fra il proprio universo creativo e quello del committente. Tradizionalmente, le colonne sonore dei film di James Bond seguono tutte lo stesso canovaccio stilistico e nel corso degli anni è con questo canovaccio che tutte le superstar che si sono cimentate nell’esecuzione dei temi portanti hanno dovuto fare i conti (Paul McCartney, Tina Turner, i Garbage e tanti altri). Questa è una delle prove meglio riuscite, dal film Casino Royale: