Io e un software generativo: esercizi di stile (parte 1)
Un tentativo di capire come io e la macchina potremmo collaborare.
Una serie di illustrazioni in cui chiedo alla macchina di completare uno dei miei disegni; in cui sono io a modificare i risultati che la macchina mi restituisce; in cui lascio che la macchina modifichi in qualche modo la mia idea iniziale.
Una serie di illustrazioni in cui stravolgo i risultati che la macchina mi restituisce a partire dalle mie indicazioni.
Durante l’ultimo anno e mezzo ho cercato di assumere un atteggiamento neutro nei confronti dei software generativi. Partivo da uno sguardo piuttosto critico che nel corso dei mesi ha progressivamente perso cattiveria e si è assestato su una relativamente pacifica considerazione: “Sono strumenti e quel che rimane importante è la consapevolezza con cui li usiamo”. Ho cercato e cerco di informarmi per bene sull’argomento IA e da quel che ho capito, al netto della “rivoluzione” generata dalla diffusione di ChatGpt, le intelligenze artificiali sono fra noi da svariati anni (la cosa viene ben divulgata in questo podcast).
ChatGpt, confesso la mia rigidità, continuo a evitarlo come se fosse un tizio a cui devo dei soldi e che se lo incontro per strada mi fa il mazzo. Ma prima o poi arriverà pure il momento in cui dovremo incrociarci. Per adesso, i miei personali esperimenti si servono del software Firefly, di proprietà Adobe (a occhio, assai meno potente di MidJourney et similia, ma per adesso va bene così).
Cyberjazz n.1
Tecnica mista: disegno a mano e pittura digitale. Featuring Photoshop Beta e Adobe Firefly
Molte persone si aspettano che il software restituisca loro immagini molto precise e aderenti alle richieste, ai prompt forniti. Il mio studio prevede una disposizione contraria.
Sono solito dare indicazioni piuttosto risicate alla macchina. Un po’ perché sono interessato più alle sue imprecisioni che ai dettagli, un po’ perché lo scopo delle mie indagini è cercare l’inaspettato, un po’ perché voglio che la macchina generi qualcosa di grezzo su cui potere operare cambiamenti. Un po’ perché, in fin dei conti, sono una persona pigra.
La figura di primo piano è mia.
Il background è stato generato dalla macchina attraverso due prompt:
1) “skyline. Comic book style”;
2) “red starry night”.
Il risultato del design dei prompt è stato modificato, filtrato da me in modo da risultare coerente con la figura e con lo stile generale che avevo in testa.
E poi ho shakerato tutto ricolorando, rifiltrando l’intero disegno, aggiungendo l’effetto pixel e bla bla bla…
Cyberjazz n. 2
Tecnica mista: disegno a mano e pittura digitale. Featuring Photoshop Beta e Adobe Firefly
Una cosa penso di averla capita: i designer del futuro, i prompt designer del futuro, avranno o almeno aspireranno ad avere un straordinaria proprietà di linguaggio. In particolare, un vocabolario molto ampio.
Anche stavolta me la volevo cavare con un’indicazione scarnificata fino all’eccesso.
“Astronave di piccola dimensione. Vista frontale. Stile fumettistico”.
Ho chiesto alla macchina di generare un’immagine coerente con lo stile del disegno che avevo realizzato: un chitarrista che cammina portando con sé la chitarra nella sua custodia.
Risultato assai dozzinale che nemmeno vi mostro. Mi sono dunque chiesto se scrivere qualcosa di più elaborato potesse persuadere la macchina a offrirmi risultati più garbati, contravvenendo ai miei propositi di base (farmi prendere di sorpresa dalla macchina e lavorare su qualsiasi risultato mi offrisse).
“Un’astronave di piccola taglia è ormeggiata nel deserto, sotto un cielo rosso, in un’atmosfera polverosa e cyberpunk”.
Molto meglio. Sto ancora studiando la faccenda, ma la mia impressione è che la macchina “preferisca” informazioni contestualizzate. Per realizzare un oggetto preferisce che le si dica in che ambiente inserirlo. E preferisce un’articolazione linguistica minima che non si limiti a una sequenza di sostantivi e aggettivi.
Non è che abbia ben inteso cosa fosse l’atmosfera polverosa e cyberpunk che le avevo chiesto (colpa mia, probabilmente: mi sarò spiegato male), ma la macchina ha disegnato un’astronave abbastanza dettagliata il cui stile aderiva al disegno di riferimento. È quella che vedete nel disegno qui sotto, come sempre ricontestualizzata e rifinita “a mano” dal sottoscritto.
Sul fatto che quell’astronave ricordi un Tie Fighter avremo modo di riflettere in altre occasioni.
Per chi non lo sapesse, il Tie Fighter è questa cosa qua.
The wall
Tecnica mista: disegno a mano e pittura digitale. Featuring Photoshop Beta e Adobe Firefly
L’immagine originale occupa la metà inferiore del quadro. Due figure che si fronteggiano, osservandosi da due muraglie contrapposte. Stavolta si trattava di chiedere alla macchina una cosa che nella mia testa era semplice e che, sempre nella mia testa, le avrebbe permesso di fare magie. Le ho chiesto di generare una cosa che nella fantascienza sia letteraria sia cinematografica sia fumettistica si vede spesso. Non sono uno che persegua l’originalità a tutti i costi.
“Città futuristica fluttuante nel cielo. Stile cyberpunk.”
Come sempre, pochissime indicazioni. E succede che la macchina mi tira fuori una serie di proposte che non c’entrano NIENTE con quello che le avevo domandato.
Però…
Però fra le proposte c’è questa struttura che pare metallica e che forse è un’astronave che sta atterrando o che sta decollando o è di passaggio. Oppure è un dettaglio di una qualche imponente follia architettonica i cui connotati potremmo soltanto immaginare. Affascinante, mi pare. E, cosa tutt’altro che trascurabile, realizzata con uno stile coerente con quello del mio disegno.
C’è uno scarto consistente fra la mia richiesta e il risultato del lavoro del software. Ma è uno scarto molto produttivo che ricorda molto quel concetto di “inaspettato” che apre nuove strade e nuove possibilità. Ricorda, e Dio sa quanto mi rode ammetterlo, la creatività nelle sue connotazioni artistiche, il pensiero out of the box che spesso ritorna nelle chiacchiere fra designer, gente del marketing e testi di psicologia.
Non finisce lì, come al solito.
C’è sempre quel piccolo particolare. Che la macchina non può autocriticarsi, non discrimina e non può decidere nulla: a decretare se quel che propone sia valido o meno; se sia rilevante o meno; se sia pubblicabile o meno; insomma, a decidere se quel che la macchina propone funzioni o no SONO IO. Per adesso, almeno.
E se da una parte mi mangio il fegato pensando che quest’affare privo di pensiero ha completato il mio disegno con una buona idea alla quale non avevo pensato, dall’altro lato mi consola il fatto che quell’idea ha comunque richiesto la mia mano per essere completata (c’è stato un discreto lavoro di correzione del colore, tonalità e altri dettagli), approvata e pubblicata.
Skynet, sei ancora di là da venire.
E se non sapete cosa sia Skynet…