Parole (parte 1): perplimere, ironia, sui generis, elevator pitch
Una sintesi di alcune riflessioni pubblicate su Linkedin negli ultimi mesi riguardo a parole che trovo spesso in giro, che spesso sono usate male, che spesso non significano quel che vorrebbero significare. Che sono in corso di cambiamento.
Che mi incuriosiscono.
Perplimere
Perplesso.
Non è il participio passato del verbo perplimere.
È un aggettivo. Al massimo, come ricorda l’enciclopedia Treccani, se ne può rintracciare l’origine al participio passato di un verbo latino che oggi non esiste più.
A dirla tutta, il verbo perplimere esiste nella lingua italiana da pochi, pochissimi anni: il suo uso è attestato per la prima volta nei discorsi di Rokko Smitherson. Parliamo di poco meno di trent’anni fa.
Insomma; è un verbo inventato a tavolino da uno dei più grandi geni comici italiani nel contesto di uno spettacolo televisivo.
Per anni ho cercato di convincere vari interlocutori che dire frasi come “le tue parole mi perplimono” è più o meno come dire che “il Lonfo non vaterca né gluisce e molto raramente barigatta, ma quando soffia il bego a bisce bisce, sdilenca un poco e gnagio s’archipatta”.
Ma niente.
Perplimere ha attecchito talmente bene nei terreni della lingua che non solo io, ma anche la stessa Treccani si è dovuta rassegnare ad inserirlo in vocabolario.
Ancora una volta, tocca dare ragione a Manzoni: l’uso è il padrone della lingua.
E non importa da dove derivi un termine, se sia un’invenzione di un singolo, se la sua genesi sia oscura o ben tracciabile: se la comunità dei parlanti lo accetta e lo usa, allora quel termine è vivo.
E i pedanti e puntigliosi puristi della lingua (presente…), muti.
Ironia
Se dovessi proporvi la mia personale classifica dei termini più fraintesi e abusati qua su Linkedin, questo si prenderebbe quasi sicuramente il secondo posto (stabilmente primo in classifica l’inamovibile marketing).
E la cosa che mi manda costantemente ai matti è che a usarla ad minchiam siano, nella maggioranza dei casi sotto ai miei occhi, persone che si dicono (nemmeno ho dubbi che lo siano) esperte in comunicazione.
Nello specifico, si tende a far confusione fra ironia e umorismo.
In breve: l’umorismo è un concetto articolato, molto vasto e generale di cui trovate molte definizioni.
Secondo Treccani è “la facoltà, la capacità e il fatto stesso di percepire, esprimere e rappresentare gli aspetti più curiosi, incongruenti e comunque divertenti della realtà che possono suscitare il riso e il sorriso, con umana comprensione e simpatia”.
L’ironia è invece uno strumento della retorica assai preciso. Tanto il concetto di umorismo è esteso quanto il termine ironia è puntuale, chirurgico.
Sempre Treccani la definisce come “la dissimulazione del proprio pensiero (e la corrispondente figura retorica) con parole che significano il contrario di ciò che si vuole dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento”.
Non basta usare un registro linguistico leggero per definire ironico il proprio stile comunicativo. Non basta fare una battuta brillante per dire di essere stati ironici. Una pubblicità non è ironica soltanto perché usa un linguaggio disinvolto e divertente. E nell’attuale ecosistema dei social non basta piazzare un’emoji che fa l’occhiolino per assicurarsi che chi legge capisca l’ironia di una frase.
E così via.
Se volessi complicare ancora di più il discorso, adesso comincerei a parlare del distinguo fra ironia e sarcasmo. Ché pure il sarcasmo è un’altra cosa. Senza volermi dilungare oltre, la definizione la trovate qui, sempre a cura di Treccani.
Di seguito: una bella canzone di Sir Elton John e Bernie Taupin che usa l’ironia a dovere. Se vi va di approfondire, trovate un po’ di traduzioni e interpretazioni sul web. Altrimenti bene lo stesso: la canzone rimane deliziosa anche se non la capite.
Sui generis
Nella mia precedente vita di libraio, era una domanda ricorrente.
Almeno un paio di volte al mese arrivava qualcuno dicendo di aver letto il tale libro di X che parlava del tale argomento Y e mi chiedeva di consigliare una lettura SUL GENERIS. Ho sempre abbozzato, ma suppongo che sia sempre stata ben decifrabile agli occhi di ogni cliente quella mia espressione di ceramica da insopportabile grammar nazi che ancora oggi mi crea talvolta problemi.
Ricorre ancora, quell’espressione. Da tempo non lavoro più fra gli scaffali e la ritrovo in rete, qua su Linkedin e non solo, nel suo immaginario significato di “simile o somigliante a qualcos’altro”.
Ora, la lingua è materia viva e nulla esclude che un tale significato possa essere accolto dai parlanti e istituzionalizzato, ci mancherebbe. La storia linguistica del mondo è fatta anche di questo: errori che diventano norme e norme che perdono aderenza con le lingue cui si riferiscono.
Ma per adesso, non è questo il caso di “sul generis”, espressione che in linea di massima continua ad essere un errore e a non significare nulla. Per adesso l’espressione corretta, usata come aggettivo, è ancora SUI GENERIS: “persona o cosa, che, per caratteristiche proprie e originali, non è facilmente definibile o paragonabile ad altro” (dal Dizionario De Mauro).
Aggiunta a margine: acoltando un bel podcast della professoressa Vera Gheno, ho saputo che certa gente usa anche l’espressione “sui GENESIS”. Sarebbe interessante a questa gente domandare cosa secondo loro vorrebbe dire. Magari verrebbero fuori spiegazioni suggestive. Nell’attesa di ascoltarne qualcuna, un grande classico che non può non venirmi in mente ogni volta che mi imbatto nella parola genesis…
Elevator Pitch
Leggo da Wikipedia che un Elevator Pitch è “un tipo di discorso e una forma di comunicazione con cui ci si presenta, per motivi professionali, ad un’altra persona o organizzazione. […] Elevator significa ascensore. L’Elevator pitch è infatti il discorso che un imprenditore farebbe ad un investitore se si trovasse per caso con lui in ascensore. L’imprenditore, quindi, si troverebbe costretto a descrivere sé e la propria attività sinteticamente, chiaramente ed efficacemente per convincere l’investitore ad investire su di lui, ma nei limiti di tempo imposti dalla corsa dell’ascensore”.
Uno dei simboli del tempo, credo.
Tempo sempre più veloce: e noi sempre più di fretta, sempre meno inclini a scendere nelle profondità di discorsi che eccedano la durata di pochi minuti.
I nostri CV che se non fanno effetto entro sette secondi vengono cestinati.
Il medico di base che lavora solo su appuntamenti presi online la cui durata è prestabilita: prima visita venti minuti; visita standard dieci minuti; certificato medico cinque minuti.
La scrittura dei giornali sempre più stringata perché le soglie attentive di chi legge sono sempre più basse e non sia mai che un titolo o un sommario ci costringano ad alzarle anche per un secondo.
E altre cose che potrei elencare ma no, non ho tempo di farlo e voi nemmeno avreste il tempo di leggermi.
Io comprendo che in molti contesti vengano preferite la velocità di esposizione al dettaglio; le definizioni lapidarie alle descrizioni; la risposta sintetica alla lunga motivazione.
Comprendo, ma stento a credere che le nostre vite stiano migliorando grazie ad accelerazioni continue che sembrano non prevedere mai pause.
E allora sapete cosa? Vi auguro che durante le vostre giornate riusciate a venir fuori almeno provvisoriamente dalle centrifughe della vita contemporanea (o dai vostri velocissimi ascensori, scegliete la metafora che preferite).
Prendetevi dieci minuti in più per raccontare di voi a una persona che avete appena conosciuta.
Non abbiate fretta di vedere quell’ultima serie in una sola giornata.
Rimandate quella call per passare mezz’ora in più con quel parente a cui volete bene e che non vedete mai. E via dicendo, ci siamo intesi.
Se vi va di tirare un attimo il fiato, fermarvi e godervi la lentezza, prendervi una ventina di minuti per ascoltare Hania Rani, compositrice polacca di talento. C’è chi scrive che la sua musica appartenga al genere new classical: non so cosa quest’etichetta voglia significare, ma la musica merita.
Se invece non vi frega nulla di rallentare e preferite un ritmo di vita più sostenuto, caricatevi con quest’altro grande classico che resta sul tema degli ascensori e lo declina a modo suo: